Tutto quello che scambiamo sulla Rete sono dati. Sono dati i documenti e i messaggi che ci scambiamo quotidianamente, sono dati i post che pubblichiamo sui Social, le ricerche che facciamo sui vari motori di ricerca, i video che guardiamo o condividiamo sulle varie piattaforme di video sharing, le foto che pubblichiamo.

Quando pensiamo ad un esempio di infrastruttura, non abbiamo difficoltà ad immaginare la rete ferroviaria, o la rete autostradale, un ponte o un acquedotto. Una infrastruttura è in sostanza un’opera “complementare” rispetto ad un’altra ed è pensata per consentire di fare “altro”. Ad esempio, viaggiare o spostare merci utilizzando un treno, muoversi in macchina, avere l’acqua corrente in casa per cucinare o fare una doccia. Una caratteristica che accomuna tutte le tipologie di infrastruttura è che concorrono allo sviluppo economico di un Paese e al benessere collettivo. Ci sono però altre tipologie di infrastrutture che generano sviluppo economico e benessere collettivo e sono quelle che chiamiamo “infrastrutture immateriali”. Poggiano su una infrastruttura “fisica”, la Rete fatta di cavi, server e dispositivi hardware, ma il loro scopo diventa quello di consentire l’esistenza e lo sviluppo della società dell’informazione, della comunicazione e della conoscenza.

Tutto quello che scambiamo sulla Rete sono dati. Sono dati i documenti e i messaggi che ci scambiamo quotidianamente, sono dati i post che pubblichiamo sui Social, le ricerche che facciamo sui vari motori di ricerca, i video che guardiamo o condividiamo sulle varie piattaforme di video sharing, le foto che pubblichiamo. Sono tutti dati che si trovano sulla Rete e sono custoditi generalmente all’interno di grosse infrastrutture fisiche (server e sistemi di storage sparsi per il globo), ma che diventano improvvisamente visibili e fruibili quando vengono utilizzati all’interno di sistemi informativi, siti web, applicazioni mobili e così via. Ed è solo quando i dati diventano visibili e fruibili che possiamo pensare di fare acquisti in Rete, informarci su quello che accade nel mondo, studiare, gestire processi, fare analisi dati, ma anche accedere ai tanti servizi on-line che ad esempio le Pubbliche Amministrazioni hanno progettato per provare a rendere più semplice la vita dei cittadini e delle imprese.

Quando qualche tempo fa è stato redatto il Piano Triennale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione, un intero capitolo è stato dedicato proprio alle infrastrutture immateriali, a sottolinearne il loro ruolo e il loro valore strategico. Infrastrutture il cui scopo diventa essenzialmente quello di progettare e creare la PA “del futuro”, abilitando la creazione di servizi evoluti e soprattutto integrati per la Pubblica Amministrazione stessa, i cittadini e imprese.

Tra le infrastrutture immateriali troviamo da una parte le “piattaforme abilitanti” e dall’altra le “infrastrutture dati”. La PA dovrebbe “poggiarsi” in modo trasversale su questi due pilastri. L’intera PA dico! Allo stesso modo in cui un treno si “poggia” e viaggia sulle rotaie.

E qui veniamo agli Open Data. È un dato di fatto che ad oggi non riescono ancora ad avere quelle caratteristiche di infrastruttura che invece servirebbero per poter costruirci su qualcosa. C’è, in altre parole, ancora una distanza molto ampia tra “come gli Open Data sono ora” e invece “come dovrebbero essere”. Chi mai vorrebbe passare su un ponte che ritiene non essere sufficientemente affidabile e robusto? Colmare questa distanza al momento costa ancora parecchio. Richiede infatti competenze, tempo e investimenti adeguati. Distanza che viene colmata generalmente dai “data brokers”, aziende cioè che raccolgono, mettono insieme e ingegnerizzano dati per reimmetterli sul mercato ad esempio sotto forma di servizio.

Questo aspetto è una forte barriera al riuso e infatti il riuso degli open data e il conseguente impatto economico (e direi anche sociale) resta ancora oggi molto limitato. Chi lo riesce a fare lo fa perché fa un investimento per coprire questa distanza. E’ un aspetto che è stato rilevato non molto tempo fa dall’Osservatorio E-Government del Politecnico di Milano (qui un articolo sull’argomento) e più recentemente dall’”Open Data Maturity Report ”, nonostante quest’ultimo report sia stato forse un po’ troppo generoso con quanto accade nel nostro Paese.

Ma l’essenza degli Open Data è proprio nel riuso. Gli Open Data esistono per questo. Il “non riuso” è in buona sostanza una “anomalia” che come tale va affrontata e gestita. Cominciare a pensare gli Open Data in termini di infrastruttura diventa così un cambio di visione necessario. Non ovviamente sufficiente.

Articolo a cura di Vincenzo Patruno, originariamente pubblicato su https://goo.gl/3zT5w3 in data 4 dicembre 2018. 

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